La solitudine del pallone

Non mi sono mai considerato un tifoso. E nemmeno, come si usa dire oggi, un “cliente”. Per 40 anni ho semplicemente amato il calcio e la Juve. Svisceratamente. Ma senza rinunciare ad essere me stesso. La mia passione non è mai scesa a compromessi. Altrimenti sarebbe diventata schiavitù. E non si può essere prigionieri di ciò che si ama. Quando ero bambino, coi volti delle figurine Panini occultati dalla mano di mio padre, riconoscevo i calciatori dalle scarpe. In fondo, come spirito, sono rimasto quello di allora. Però il calcio è cambiato. Parecchio. Non esattamente in meglio. Come se il pallone ci fosse sfuggito dai piedi, per finire nel cortile di gente senza cuore e senz’anima. “Ragazzino, questo pallone non è più tuo. Adesso lo taglio in due e poi lo butto nel cassonetto dei rifiuti”.
Reminiscenze di un’infanzia disagevole, trascorsa sui marciapiedi di una periferia ansimante. “Andate a giocare da qualche altra parte. Altrimenti, la prossima volta, faccio a pezzi voi”. Seguivano ghigno beffardo e clamore di porta sbattuta. In fondo, le facce dei “bruti” che s’impadronivano dei nostri palloni, assomigliano terribilmente ai visi delle persone che hanno devastato il calcio. E quindi il nostro sogno. Presidenti, dirigenti, faccendieri, politici, procuratori, allenatori, calciatori. Una carovana di gente scriteriata. Che ha distrutto il gioco più bello del mondo.

Il Pathos

Secondo il pensiero greco, l’animo umano è regolato da due forze contrapposte: il Logos e il Pathos. Il Logos è la parte razionale, il Pathos quella irrazionale. Il Logos, regno del calcolo e della logica, non mi affascina. Per questo, nella vita, cerco sempre il Pathos. Un fantastico viaggio verso l’ignoto. Un mistero avvolto nella spontaneità. Cerco il Pathos nella musica: una canzone, per colpirmi, deve accarezzare la mia anima. Cerco il Pathos nel cinema: un film, per piacermi, deve insinuarsi dentro le mie vene. Cerco il Pathos nella letteratura: un libro, per catturarmi, deve lambire i quattro angoli del cuore. Che cosa meravigliosa, il Pathos. Una sensazione che si rinnova ogni mattina, quando porto del cibo ad un manipolo di gatti di strada. All’inizio erano, giustamente, diffidenti. Adesso riconoscono il suono dei miei passi e mi vengono incontro, con la speranza stampata sul muso. Mi circondano, attendendo con pazienza il clic della scatoletta che si apre. E poi cominciano a mangiare, con una voracità che riempie gli occhi. Ecco, in quei momenti, mi ritengo un privilegiato. Perché non è facile entrare nelle stanze magiche del Pathos. Ed io, grazie ai piccoli felini, ogni giorno riesco a varcare quella soglia per qualche minuto. Poi, fatalmente, devo tornare alla routine del Logos. Ma l’immagine di quelle creature che mi vengono incontro, scolpita nella mente, mi aiuta ad affrontare anche le giornate più dure.

Goodbye Sir Alex

La prossima Premier League, per la prima volta nella sua storia, non vedrà quindi ai nastri di partenza Sir Alex Ferguson. Si tratta di una svolta epocale: sia per i red devils che per il calcio inglese. L’uomo nato a Govan, sobborgo di Glasgow, fu il primo manager a vincere la Premier, istituita nella stagione 1992/93. Sarà solo una combinazione ma, esattamente vent’anni più tardi, dopo aver regalato al Man U il ventesimo scudetto, Sir Alex ha deciso di chiudere la sua scintillante carriera. Carriera che i numeri raccontano meglio delle parole. Il tecnico scozzese, che allena dal 1974, lascia la panchina del Man U dopo 27 anni e 38 trofei. Titoli che diventano 48 se calcoliamo anche i successi ottenuti dallo scozzese alla guida dell’Aberdeen. Un bilancio maestoso. Quando Ferguson sbarcò all’Old Trafford, il Man U aveva in bacheca appena 7 scudetti e gli acerrimi rivali del Liverpool (a quota 18) sembravano lontani un’eternità. Vent’anni dopo, complice anche la crisi dei reds, il Man U è balzato al comando. E pare non abbia alcuna intenzione di fermarsi. Oltre alle vittorie, infatti, Sir Alex ha portato in dote organizzazione, idee e programmazione. Elementi che assicurano al Man U, oltre al notevole presente, anche un fulgido futuro. Sir Alex ha consegnato personalmente il testimone al cinquantenne David Moyes, altro scozzese di Glasgow, reduce da 11 buone stagioni all’Everton: nessun trofeo ma gioco più che discreto, nonostante le difficoltà economiche del club. Moyes, che vanta nel palmarès personale solo una promozione in Championship con il Preston, in queste ore si sentirà come l’uomo che ha appena vinto il primo premio alla lotteria.