Da Dixie Dean a Haaland…

Copertina_La mia vita per un goalTratto dal mio libro “La mia vita per un goal”, 2016, Luoghi Interiori.
La storia del calciatore che ha segnato più reti in una stagione del massimo campionato inglese.
Record che, scommetto, entro qualche anno verrà battuto da Haaland.
Racconto la storia di Dixie Dean come se fosse lui a parlare.
Leggetela, vi emozionerà.

Ognuno ha la sua forma di dipendenza. Dostoevskij era schiavo dal gioco, il Dottor House non riusciva a fare a meno del Vicofin ed io, invece, vivevo esclusivamente per la musica del goal. Segnare era il mio farmaco, l’unica cura contro l’insopportabile ronzio del dolore. Il mio nome era William Ralph Dean, ma quasi tutti mi chiamavano Dixie. Forse prendendo spunto da quella canzone che ha lambito la mia infanzia, oppure per la mia carnagione scura, che mi faceva assomigliare allo Zio Tom del famoso romanzo di Harriet Beecher Stowe.

Sono nato a Birkenhead, una città che si trova sulla sponda ovest del fiume Mersey. Mio nonno, Ralph Brett, guidava il treno reale durante il regno di Giorgio V. Anche mio padre William era un ferroviere, mentre mia madre Sarah si arrangiava come cameriera. Io ero l’ultimo di cinque figli e la mia adolescenza è trascorsa in parte sulle macerie della prima guerra Mondiale. Andare a scuola non mi piaceva, così ho cominciato presto a rendermi utile. Inizialmente ho fatto il lattaio, poi il montatore. Lavoravo di notte per poter giocare a pallone di giorno. Io ed il football: un colpo di fulmine. La folgorazione avvenne all’età di otto anni: mio padre, tifoso dell’Everton, mi portò a vedere una gara dei ““Toffees” ed io, da allora, non ho più avuto dubbi. Avrei fatto il calciatore. Più precisamente il centravanti.

A sedici anni ero già titolare del Tranmere, terza divisione inglese. Con i “Superwhite Army”, durante un’ amichevole, ebbi un brutto incidente di gioco, che comportò l’asportazione di un testicolo. Un “contrattempo” che ha solo rallentato la mia corsa. Nella mia seconda annata con Rovers segnai ventisette goals in altrettante partite. Arrivammo penultimi, ma io riuscii ugualmente a varcare la linea immaginaria che separa l’anonimato dalla notorietà. Mi cercarono soprattutto Arsenal, Newcastle ed Everton. Per una questione puramente sentimentale scelsi i “Toffies”, che offrirono comunque la sostanziosa cifra di 3000 sterline. Io, d’accordo, con mio padre, donai il mio compenso all’ospedale di Birkenhead. Nella mia prima season completa con l’Everton misi a segno ben trentadue reti, consentendo alla squadra di scalare ben sei posizioni in classifica rispetto alla stagione precedente. Ero raggiante, ma dietro l’angolo mi aspettavano altre sorprese negative. Nell’estate del 2006 ebbi un gravissimo incidente in moto. Arrivai all’ospedale con il cranio fratturato ed i medici, dopo avermi sottratto miracolosamente alla morte, furono categorici: “Questo ragazzo non potrà mai più giocare a football”. Ma io ero un tipo tosto. Così, con uno stoicismo degno di Zenone, dopo soli tre mesi, ritrovai il campo. Più forte di prima.

Nel 1927/28, dopo aver dimostrato quanto sapessi soffrire in nome del football, decisi di bussare al portone della leggenda. Mi aprirono subito, perché quell’anno mi caricai sul groppone l’Everton, portandolo alla conquista dello scudetto. Il terzo titolo dei “Toffees” aveva il profumo dei miei sessanta goals, tuttora record della massima divisione inglese. Prendete nota: cinque dozzine di reti sui centodue complessivi realizzati dalla mia squadra. Pensate che, nell’ultima partita del campionato, ero a quota cinquantasette, due in meno di George Camsell, attaccante del “Boro”, che però aveva ottenuto quell’exploit in seconda divisione. Io potevo sorpassarlo ma, per riuscire nella titanica impresa, avrei dovuto siglare una tripletta nel match contro l’Arsenal di Herbert Chapman. Quel pomeriggio mi presentai al gran gala con lo smoking d’ordinanza. Finì 3-3 ed io centrai clamorosamente l’obiettivo.

Io e l’Everton: un amore sconfinato. Nella stagione 1930/31, nonostante il mio status di top player, non esitai un solo istante a a seguire i “Toffies” in seconda divisione. Abituato a superare difensori d’alto lignaggio, non feci molta fatica ad aggiudicarmi il titolo di capocannoniere della Division Two. Ritornammo pomposamente nella massima serie e da neopromossi, vincemmo il quarto scudetto. I miei quarantaquattro goals, oltre a farmi rivincere la classifica marcatori, servirono a tenere a debita distanza l’Arsenal. Il 29 Aprile 1933 conquistammo anche la Coppa d’Inghilterra, battendo 3-0 in finale il Manchester City. Inutile dire che il sottoscritto infilò il suo nome nel tabellino del match. In quel periodo, qualche ora prima di scendere in campo, i calciatori erano soliti abbuffarsi con abbondanti razioni di trippa e cipolle. Io, invece, affrontavo le partite dopo essermi scolato uno sherry con dentro due uova. Forse, anche per quel vezzo, ho segnato trentasette triplette in carriera.

All’Everton ho donato gli anni più luminosi della mia traiettoria calcistica. Quelli in cui il mio colpo di testa, pezzo forte di un repertorio vario e scintillante, era letale come il morso di un cobra. Nonostante non arrivassi al metro e ottanta, riuscivo a staccare là dove nasce l’arcobaleno, con uno stile che molti hanno definito artistico. La mia popolarità era tale che un detenuto tedesco durante la seconda guerra Mondiale maledisse il mio nome insieme a quello di Winston Churchill.

Con la Nazionale ho giocato solo sedici partite, saltando il Mondiale del 1930 per lo “splendido” isolamento dell’Inghilterra, ancora alle prese con il complesso di superiorità di chi sa di aver inventato il football. Ho esordito a vent’anni appena compiuti, contro il Galles, autografando una doppietta. Ho concluso la mia carriera internazionale nel 1931, con un goal alla Spagna.

“Dixie Dean è come Beethoven, Shakespeare e Rembrandt”. Queste parole, pronunciate da Bill Shankly, formidabile manager del Liverpool, mi hanno sempre riempito d’orgoglio. Così come mi ha intenerito vedere la mia statua in bronzo, disegnata dallo scultore Tom Murphy, fuori da Goodison Park. Io ho il pallone sotto il braccio e sono attorniato dalle scritte “Footballer, Gentleman, Evertonian”.

Nel 1931 ho sposato la mia Ethel. Abbiamo avuto quattro figli. I tre maschi e mia moglie se ne sono andati prima di me. Ethel ha avuto un infarto nel 1974 e, da quel momento, la mia salute, già malferma, si è aggravata. Ho lucidato i ricordi di una vita in casa di mia figlia Barbara. Poi, il giorno 8 Marzo del 1980, mi sono arreso all’incedere del tempo. Quel pomeriggio mi ero recato a Goodison Park per assistere al derby con il Liverpool. Non seppi mai il risultato di quel match, perché la morte mi colse all’improvviso sulle tribune dello stadio che mi aveva visto protagonista per quattordici lunghissimi anni. Lo sceneggiatore che scrive le trame delle nostre vite ha voluto farmi esalare l’ultimo respiro proprio nella gara più sentita dai tifosi. Devo ammetterlo, il finale della storia mi è piaciuto parecchio.

William Ralph “Dixie” Dean

Luogo e data di nascita: Birkenhead (Inghilterra), 22 Gennaio 1907

Luogo e data di morte: Liverpool (Inghilterra), 1 Marzo 1980

Periodo d’attività: 1923/1940

Gare ufficiali: 497

Reti ufficiali: 436

Nazionale: 16 presenze, 18 reti (Inghilterra)

Palmarès: 2 scudetti inglesi, 1 Coppa d’Inghilterra, 2 Community Shield (Everton)

Premi individuali: Capocannoniere campionato inglese (2)

Record: maggior numero di reti in una stagione nella massima divisione inglese (60), miglior marcatore all time Everton (383 reti)

Elkann non morde…

ELKANNNon sono mai stato un fan di Allegri, anzi. L’ho sempre considerato mediocre come allenatore e poco più che discreto come gestore di uomini. Fatta la necessaria premessa credo che il problema della Juve non sia chi siede in panchina, ma la dirigenza.

Del resto la folle decisione di richiamare il livornese che ha come unico schema di gioco “halma”, è stata del presidente che tutto il terzo mondo ci invidia.

Allegri era già inadeguato due anni fa, figuriamoci adesso, con una squadra ancora più debole.

Vogliamo poi parlare di una campagna acquisti fallimentare, cominciata con l’ingaggio di Pogba, ex calciatore da almeno due stagioni e in più afflitto da costanti fastidi fisici?

Proseguita con l’arrivo di Di Maria, giocatore dal talento indiscutibile, il cui unico ed ultimo obiettivo in carriera è vincere il Mondiale.

Proprio per questo ha scelto di svernare nel campionato più comodo dei cinque principali europei dove, visto il livello dei difensori, può riposarsi in pace tirando fuori ogni tanto dal cilindro qualche giocata delle sue.

Vogliamo poi disquisire dell’acquisto di Bremer, uno che non faceva la differenza neppure nel Torino, pagato una cifra fuori da ogni logica?

Per il resto, Kostic e Milik possono anche avere un senso, ma non sono giocatori in grado di spostare gli equilibri.

Ricapitolando, dopo un mercato del genere, peraltro avallato da Allegri, mi dite a cosa servirebbe cacciare l’allenatore?

Pensate seriamente che un Tuchel, altro tecnico sopravvalutato, cambierebbe le prospettive?

No, no e poi no.

Questa Juve, indebitata fino al collo, ha problemi strutturali.

A cominciare dal suo proprietario: do you remember Calciopoli?

La situazione, come diceva qualcuno, è grave ma non è seria.

La soluzione si chiama competenza e non porta certo il nome di Arrivabene e neppure, dispiace dirlo, di Nedved.

Qualcuno dirà: e i nove campionati vinti?

Risposta facile: agevole mettere trofei in bacheca quando gli avversari latitano.

Oggi che i rivali hanno acquisito forza e consapevolezza, bisognava alzare il livello.

Invece la Juve è riuscita addirittura ad abbassarlo.

 

 

Leggerezza non è superficialità…

leggerezzaC’è bisogno di leggerezza.
Che non è superficialità, ma l’esigenza di aggirare per qualche ora tutti i problemi, le difficoltà e le insidie della nostra esistenza quotidiana.
C’è bisogno di leggerezza.
Che non è menefreghismo, ma il desiderio di affrancarsi da una società avviata irrimediabilmente verso il precipizio.
C’è bisogno di leggerezza.
Forse l’unico modo per sopravvivere a questi tempi mediocri.