La mia vita per un dribbling

Gli artisti del pallone amano spingersi oltre i confini dell’impossibile. Là dove osavano Garrincha e George Best, gente che avrebbe dato la vita per un dribbling. Perché il dribbling è una forma di ribellione contro l’ordine costituito. Uno sberleffo al conformismo della società. L’ultima frontiera dell’anarchia.

Perché il dribbling è come l’arcobaleno dopo la pioggia, la brezza leggera che spettina gli alberi, l’uomo che ridiventa bambino. Perché un dribbling può essere prezioso come un assolo di Jimi Hendrix, irriverente come una battuta di Groucho Marx, profondo come un discorso di Martin Luther King.

Perché il dribbling schiaffeggia la noia e strappa le pagine di una sceneggiatura già scritta. Perché il dribbling comporta sempre un rischio, quindi richiede coraggio. Il coraggio di rischiare. Saltare l’avversario e poi tornare indietro. Per saltarlo di nuovo. Non certo per umiliarlo, ma solo per amore del dribbling.

Dribblare tutto e tutti per lasciare sul posto la retorica del collettivo che conta più del singolo. La banalità del gruppo che vale più del fuoriclasse. Già, ma poi, sono quasi sempre loro, gli artisti del pallone, a farti vincere campionati e coppe. In barba ai tatticismi dei cosiddetti strateghi della panchina. Perché un dribbling, forse, non potrà mai stravolgere il mondo. Però potrà sempre cambiare una partita.

Tratto da “Guida alla Premier League-Liga-Bundesliga 2012/13″.