La solitudine del pallone

Non mi sono mai considerato un tifoso. E nemmeno, come si usa dire oggi, un “cliente”. Per 40 anni ho semplicemente amato il calcio e la Juve. Svisceratamente. Ma senza rinunciare ad essere me stesso. La mia passione non è mai scesa a compromessi. Altrimenti sarebbe diventata schiavitù. E non si può essere prigionieri di ciò che si ama. Quando ero bambino, coi volti delle figurine Panini occultati dalla mano di mio padre, riconoscevo i calciatori dalle scarpe. In fondo, come spirito, sono rimasto quello di allora. Però il calcio è cambiato. Parecchio. Non esattamente in meglio. Come se il pallone ci fosse sfuggito dai piedi, per finire nel cortile di gente senza cuore e senz’anima. “Ragazzino, questo pallone non è più tuo. Adesso lo taglio in due e poi lo butto nel cassonetto dei rifiuti”.
Reminiscenze di un’infanzia disagevole, trascorsa sui marciapiedi di una periferia ansimante. “Andate a giocare da qualche altra parte. Altrimenti, la prossima volta, faccio a pezzi voi”. Seguivano ghigno beffardo e clamore di porta sbattuta. In fondo, le facce dei “bruti” che s’impadronivano dei nostri palloni, assomigliano terribilmente ai visi delle persone che hanno devastato il calcio. E quindi il nostro sogno. Presidenti, dirigenti, faccendieri, politici, procuratori, allenatori, calciatori. Una carovana di gente scriteriata. Che ha distrutto il gioco più bello del mondo.

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